Muri a secco e non: i picapreda e i costruttori intelvesi

Sulla rivista “Orobie” è comparso un articolo che parla dell’arte dei muretti a secco, inserita dall’UNESCO tra i patrimoni dell’umanità, ricordando come anche la Lombardia sia ricca di testimonianze di questo tipo: spaziando dal Bresciano alla Valtellina, cita di sfuggita i terrazzamenti della Tremezzina.

La necessità di aumentare la superficie coltivabile e ottenere piani lungo i pendii ha spinto l’uomo a terrazzare il terreno mediante muretti a secco: la mancanza di legante (malta) tra le pietre permette lo scolo delle acque riducendo la pressione esercitata dal terreno bagnato.

Muretti a secco furono utilizzati anche per delimitare aree e terreni, mentre interessanti sono anche gli “ometti” o “torri” di spietramento, ottenuti accumulando in verticale le pietre tolte dissodando il terreno; se ne vedono per esempio nei pressi del Monte Generoso.

Anche la Valle Intelvi ovviamente presenta esempi di murature a secco, ma alcuni manufatti intelvesi hanno anche una particolare valenza storica.

Prima di tutto il recinto preistorico (“castelliere”) del Caslé di Ramponio, scoperto a fine Ottocento dall’americano J. B. Andrews e dal ponnese Vincenzo Barelli, oggetto di diverse indagini archeologiche (Magni 1906, Degrassi 1952, Museo di Como 2004-2010): dagli scavi si deduce che il castelliere è stato occupato dall’Età del Bronzo Recente (XIII sec. a. C.) fino agli inizi della Prima Età del Ferro (X sec. a.C.), con possibili sporadiche successive presenze. Il manufatto era costituito da un poderoso muraglione a secco spesso e alto qualche metro, che recingeva un perimetro di circa 400 metri, a cavallo dei vecchi comuni di Ramponio-Verna e Lanzo d’Intelvi; all’interno c’erano i resti di piccole capanne con base in pietra a secco. Si trattava probabilmente di un sistema recinto che di notte ospitava uomini e animali al riparo di eventuali predatori; non si può comunque escludere che possa essere stato anche un centro privilegiato di riferimento per le popolazioni preistoriche locali.

Altri manufatti interessanti sono i due recinti di Erbonne, eseguiti a secco, probabili ricetti pe ospitare ovini: sono per ora indatabili, ma testimoniano la vocazione millenaria del sito alla pastorizia, confermata dai resti paleobotanici e paleozoologici rinvenuti nel 1992 negli scavi eseguiti presso il cimitero dal Museo di Como.

Tuttavia l’abilità dei picapreda (scalpellini) e dei maestri murari intelvesi esplode a partire dal Medioevo, quando li vediamo impegnati a edificare e decorare in Italia e nel resto d’Europa, anche se le radici di tale specializzazione sicuramente affondano in epoche più remote.

Nell’Ottocento si era sviluppato il cosiddetto “mito comacino”, diffuso con enfasi campanilistica da vari autori: alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente tutti gli architetti si sarebbero rifugiati sull’Isola Comacina per sfuggire ai barbari, mantenendo viva la tradizioni costruttiva romana e da lì poi avrebbero diffuso l’arte romanica in Europa.

Nel Novecento, nel giusto tentativo di ridimensionare questa visione mitica, si è commesso l’errore di “buttare via il bambino insieme all’acqua sporca”, negando qualsiasi grado di specializzazione alle maestranze dei laghi lombardi. Tuttavia verso la fine del secolo scorso molti studiosi moderni, soprattutto legati alla scuola genovese (Mannoni, Boato, Cagnana) hanno cominciato a riconoscere un nucleo di verità presente nel “mito comacino”, ammettendo l’esistenza presso il laghi lombardi di popolazioni specializzate nel trattare la pietra, nella carpenteria e nella gestione di cave e cantieri, forse già a partire dell’età tardoromana. Non si trattava di artisti, ma di semplici maestranze abili a maneggiare il materiale edilizio presente da sempre in zona e inquadrati negli ordinamenti civili e militari tardoromani, rimasti in auge (se pur in parte degradati) fino all’arrivo dei Longobardi.

Quando questi ultimi hanno occupato completamente (dopo vent’anni dal loro arrivo in Italia e dopo un assedio di sei mesi dell’ultimo baluardo dell’ “insula commacina”) il territorio tra Verbano e Lario e, dopo una stasi ventennale dell’edilizia pubblica, hanno iniziato a promuovere costruzioni e ristrutturazioni a Milano, Monza, Pavia, Castelseprio, Fara di Gera d’Adda: è probabile che si siano serviti delle maestranze reclutate nei territori da loro appena occupati e abbastanza vicini ai loro centri di potere.

Si può quindi ipotizzare che le maestranze “com(m)acine” siano state le prime a essere impiegate in opere importanti dai Longobardi, che per questo le avrebbero inquadrate giuridicamente nella compagine dei “magistri com(m)acini”: termine che servì in seguito a indicare la loro professione, ma che avrebbe comunque un’origine geografica. La derivazione da “cum machinis”, a lungo accettata da molti studiosi novecenteschi, è infatti inaccettabile ed è stata demolita dai linguisti: in tutto il latino classico e medievale non esiste alcun esempio di “magister” con il “cum”!

Una fenomeno simile si ebbe (come ho già scritto in altre occasioni) anche per i carpentieri della “valle que dicitur Antelamo” (Valle Intelvi) presenti a Pavia almeno dal secolo VIII, che furono la premessa dell’associazione di costruttori (intelvesi e, più tardi, originari di tutte le terre “luganesi”) detta dei “magistri Antelami”, che a Genova ebbe di fatto il monopolio dell’edilizia tra XII e XVI secolo. Gli studiosi liguri sembrano aver accertato che furono proprio i “magistri Antelami” a introdurre a Genova le murature eseguite con pietre squadrate dallo scalpellino e non soltanto sbozzate, come le ritroviamo anche in Valle Intelvi dove la committenza lo permetteva, dato l’alto costo: come esempi più noti citiamo l’abside romanica (ora cappella di destra) della chiesa dei SS. Quirico e Giulitta a Veglio e la facciata con splendido portale (XII sec.) della parrocchiale di S. Antonio Abate a S. Fedele.

Voglio citare un’ipotesi (che ovviamente deve essere verificata con studi scientifici) suggerita da alcuni studiosi: i “magistri Antelami” avrebbero accompagnato in Oriente i crociati in qualità di carpentieri navali e militari e là avrebbero riappreso l’arte (caduta in disuso in Occidente) di squadrare perfettamente la pietra, reintroducendola in occidente.

Marco Lazzati